Covid-19: sistema immunitario e vaccini | Ultime notizie
È da ormai un anno che il Covid-19 ha cambiato e stravolto le nostre vite.
Addirittura, con la recente comparsa delle varianti, la speranza di debellare definitivamente SARS-CoV-2 in tempi brevi appare svanita e con essa l’aspettativa di poter abbracciare e baciare liberamente le persone a noi care.
Infatti, secondo molti scienziati il virus è destinato a diventare endemico; ciò significa che continuerà a circolare per anni in sacchi della popolazione globale, ma con un risvolto meno pericoloso nonché meno letale.
Anche se non è realistico pensare alla completa repressione del virus, ciò non significa che la morte, la malattia e l’isolamento sociale continueranno con dimensioni simili a quelle che abbiamo vissuto fino ad ora.
Il futuro dipende estremamente dal tipo di immunità acquisita dalle persone tramite il contagio o per mezzo del vaccino, per di più dal modo in cui evolve il coronavirus stesso.
La risposta immunitaria a Covid-19
A proposito di immunità, il virus SARS-CoV-2 stravolge il sistema di difesa dell’organismo determinando un vero e proprio caos immunitario. In generale, i virus escogitano ingegnose strategie per ingannare le difese del nostro corpo; infatti, il sistema immunitario presenta nel suo arsenale due tipi di risposte ai patogeni invasori. Tali risposte si dividono in una risposta rapida d’emergenza e una risposta lenta ma più duratura contro virus, funghi, batteri ed altri patogeni. La prima ad entrare in gioco è la risposta immunitaria «innata» tramite cui le cellule del sistema immunitario rilevano i patogeni invasori per mezzo di risposte recettoriali. Le risposte recettoriali innescano una cascata di segnali mediante proteine chiamate citochine. Le citochine avvisano le cellule circostanti affinché intensifichino il coinvolgimento di altri tipi di citochine o attivano le difese innescando la morte programmata delle cellule infette. In seguito, nel giro di una o due settimane, alcuni globuli bianchi membri del sistema immunitario «adattativo» diventano attivi. Il sistema adattivo aumenta la produzione di anticorpi altamente mirati e di linfociti T che neutralizzano o uccidono il patogeno invasore migrando alla sede di infezione, permettendo una risposta duratura in caso di ricomparsa dell’agente infettivo. Sia SARS-CoV (coronavirus della sindrome respiratoria acuta) che MERS-CoV (coronavirus della sindrome respiratoria mediorientale) possono attivare a sproposito il sistema immunitario. L’infiammazione che risulta dall’eccessiva attivazione del sistema immunitario determina, nei pazienti affetti da forme gravi di COVID-19, una forma potenzialmente letale di polmonite detta sindrome da distress respiratorio acuto (o ARDS, Acute Respiratory Distress Syndrome). La sindrome da distress è accompagnata da una serie di gravi sintomi tra cui perdita del gusto e dell’olfatto, nebbia cerebrale, problemi gastrointestinali, problemi cardiovascolari, coaguli sanguigni e insufficienze d’organo.
Il positivo ma limitato successo dei farmaci immunosoppressori a vasto raggio, quali i corticosteroidi, ha confermato l’ipotesi che nei pazienti più gravi il sistema immunitario entri in uno stato di iper-infiammazione. Difatti, quando il sistema immunitario funziona a dovere, esso disarma e distrugge SARS-CoV-2; ma il virus è capace di aggirare questo normale processo, monopolizzandolo a suo favore: sul sito dell’infezione arrivano quantità eccessive di proteine di segnalazione ossia citochine, questo processo somiglia alla «tempesta di citochine» che si osserva in altre condizioni mediche. Oltre alla sindrome ARDS, esso può portare anche all’accumulo di fibrina, una proteina che causa la coagulazione del sangue; inoltre, a causa dell’infiammazione, i vasi sanguigni perdono fluidi che invadono la cavità polmonare aprendo la via all’insufficienza respiratoria.
Gli scienziati hanno sospettato che le tempeste di citochine delle gravi infezioni da coronavirus (SARS-CoV e MERS-CoV) fossero in gioco con un meccanismo analogo anche per SARS-CoV-2; infatti già nei primi mesi della pandemia i medici hanno cominciato effettivamente a rilevare elevati livelli di citochine infiammatorie nei pazienti. In particolare, livelli anormalmente elevati di citochine come Interleuchina (IL)-6 e Fattore di Necrosi Tumorale (TNF)-α sono predittivi dei casi gravi della malattia e della morte dei pazienti; inoltre, in alcuni di essi è stato riscontrato anche un aumento dei livelli di chemochine, ossia una sottoclasse di citochine che indirizzano le cellule immunitarie ove necessario. Specificatamente, concentrazioni elevate delle chemochine CCL2, CCL7, CXCL9 e IL-8 agivano da richiamo nei siti di infezione, sollecitando anche altre cellule del sistema immunitario ad unirsi in modo da determinare un’amplificazione dei danni locali.
Terapie per contrastare l’evoluzione dei gravi sintomi indotti da Covid-19: Interferoni, tocilizumab
Ultimamente è stata prestata attenzione a una classe di citochine, gli interferoni, ossia una prima linea di difesa dell’organismo in grado di bloccare diversi passaggi della replicazione virale nella cellula. Nello specifico, la produzione dell’interferone (ITF) di tipo 1 da parte del sistema immunitario sembra possa mantenere sotto controllo il virus e dirottare il decorso della malattia verso una forma lieve. Tuttavia, in pazienti anziani o esposti a grandi quantità del virus il sistema immunitario potrebbe tardare a rispondere, permettendo al virus di continuare a riprodursi così che quando arrivano gli interferoni nei siti di infezione questi potrebbero reagire eccessivamente, stimolando la produzione di elevate concentrazioni di vari tipi di citochine responsabili dell’infiammazione e delle forme gravi della malattia; oppure un dato paziente potrebbe produrre, per fattori genetici, meno ITF-1 o, ancora, la risposta immunitaria potrebbe essere tanto erratica da produrre addirittura anticorpi contro questo tipo di interferoni. Tali “autoanticorpi” si pensa siano una possibile causa dei sintomi a lungo termine di COVID-19; infatti monitorare la risposta dell’interferone potrebbe darci informazioni essenziali sul pericolo di vita del paziente affetto da coronavirus, per di più alcuni pazienti potrebbero beneficiare della somministrazione di interferoni prodotti in laboratorio.
Normalmente, i monociti del sistema immunitario innato pattugliano il sangue e in caso di contatto con un agente patogeno sono i primi ad essere chiamati in gioco per far sì che esso sia eliminato/sequestrato. Quando rilevano una minaccia microbica, i monociti potrebbero differenziarsi in due tipi specifici di globuli bianchi: macrofagi e cellule dendritiche. I primi, consumano patogeni e detriti cellulari mentre le seconde identificano e contrassegnano i patogeni per la risposta di altri tipi di cellule immunitarie. Per far sì che il sistema immunitario non reagisca in modo eccessivo, i livelli dei monociti sono finemente regolati, ma nei casi gravi di COVID-19 questo controllo viene perduto infatti si osserva un numero di monociti maggiore rispetto ai valori normali. Essi, insieme ai macrofagi, infiltrano i polmoni esprimendo livelli di citochine confrontabili con quelli dell’infiammazione grave, pertanto, se le citochine prodotte da monociti e macrofagi sono responsabili dei danni polmonari, gli interventi che ne bloccano l’attività infiammatoria potrebbero prevenire l’aggravarsi dell’infezione. Allora, ci sembra intuitivo pensare che trattamenti mirati a ridurre la presenza di citochine nei pazienti COVID-19 possano essere utili, come per esempio il farmaco tocilizumab che blocca un recettore a cui si lega IL-6, appunto una delle principali citochine. Sfortunatamente, i trial clinici hanno mostrato scarse prove di miglioramenti degli esiti della malattia, pertanto gli scienziati hanno ipotizzato il coinvolgimento di altri fattori immunitari responsabili della risposta iper-infiammatoria, come il peptide bradichinina.
Altri approcci terapeutici
La bradichinina, come le citochine, potrebbe indurre una risposta infiammatoria e le cosiddette «tempeste di bradichinina» in effetti posso essere aggravate dalle stesse citochine infiammatorie. La conseguenza nei pazienti è una forte dilatazione diffusa dei vasi sanguigni e di sintomi quali aritmie e arresti cardiaci improvvisi. Tuttavia, sul ruolo della bradichinina in COVID-19 sono necessari ulteriori certezze, ma uno studio esplorativo sul farmaco icatibant, un inibitore di un recettore della bradichinina, conferma l’ipotesi che bassi livelli di questo peptide potrebbero alleviare la forma grave della malattia.
I neutrofili, che ingeriscono i patogeni, possono attivare la produzione della bradichinina. Alcuni studi suggeriscono che essi possano essere tra i responsabili della malattia in quanto spargono le cosiddette «trappole extracellulari» (o NET, da Neutrophil Extracellular Trap) che consistono in “ragnatele” di DNA, proteine antimicrobiche ed enzimi che catturano e distruggono i patogeni ma quando l’infiammazione è grave le NET possono farsi tossiche, producendo coaguli e danneggiando le cellule polmonari.
SARS-CoV-2, oltre a causare una perdita di controllo delle difese immunitarie innate, manda in tilt anche il sistema immunitario adattativo, infatti in alcuni pazienti si osserva una forte perdita di linfociti T, che sono un importante elemento dell’immunità adattativa a lungo termine. Difatti, in condizioni normali, i linfociti T diretti contro uno specifico antigene per misura protettiva si fanno più abbondanti; nei pazienti gravemente colpiti da COVID-19 invece questo non avviene e si osserva un numero considerevolmente basso di linfociti T nel sangue. Ciò potrebbe essere dovuto ad una insufficiente produzione dei loro precursori da parte del midollo osseo oppure è il virus stesso a uccidere direttamente i linfociti T; pertanto, un’altra potenziale terapia potrebbe essere mirata a far aumentare il loro numero nel sangue.
I vaccini e covid-19
Come ben sappiamo, molti sono i Paesi che hanno iniziato la distribuzione dei vaccini per COVID-19. Si spera in una rapida riduzione dei casi gravi della malattia; tuttavia per prevedere quanto i vaccini siano efficaci nel ridurre il contagio servirà sicuramente più tempo. Finora i dati delle sperimentazioni cliniche indicano che i vaccini in grado di prevenire il contagio sintomatico potrebbero anche impedire al soggetto di trasmettere il virus. Inoltre, in condizioni ideali, se i vaccini continuassero ad essere efficaci anche contro le nuove varianti si potrebbe pensare all’eliminazione del coronavirus in tutte quelle regioni in cui è stato vaccinato un numero di persone sufficiente a proteggere anche chi non lo è stato, determinando un aumento dell’immunità di gregge. Un vaccino al 90% efficace nel bloccare il contagio deve essere somministrato ad almeno il 55% della popolazione mondiale per raggiungere un’immunità di gregge, rispettando le misure di distanziamento sociale (mascherine e smart-working) e ad almeno il 67% se le misure di distanziamento sociale fossero rimosse. Ma se il tasso di infezione aumenta a causa di una nuova variante oppure se l’efficacia del vaccino è inferiore al 90% nel bloccare il contagio, la copertura vaccinale dovrà essere più estesa per poter rallentare la diffusione del virus.
Ma il coronavirus è capace di eludere il sistema immunitario e quindi aggirare l’azione dei vaccini? Probabilmente sì. Studi di laboratorio hanno dimostrato che gli anticorpi neutralizzanti dei soggetti che hanno avuto il COVID-19 sono meno efficaci nel riconoscere alcune forme di varianti, questo potrebbe essere dovuto a mutazioni della proteina Spike tramite cui il virus si lega sulla superficie polmonare, nonché bersaglio dei vaccini. Ma gli esperti ci tranquillizzano dicendo che il sistema immunitario ha diverse risorse e che il virus debba attraversare molte mutazioni prima che il vaccino diventi inefficace, continuando sempre a conferire protezione per la forma grave della malattia. Secondo alcuni infettivologi il virus potrebbe anche prendere un andamento stagionale simile a quello dell’influenza, con ondate annuali di casi in inverno. Come nel caso dei vaccini antinfluenzali, anche per i vaccini anti-SARS-CoV-2 probabilmente sarà necessario procedere, forse tutti gli anni, ad una riformulazione del prodotto, mentre comunque una certa immunità acquisita dalla vaccinazione precedente o con un contagio attenua i casi gravi. Con i coronavirus endemici, dunque, le reinfezioni frequenti sembrano aumentare l’immunità alle varianti e di solito i soggetti colpiti presentano solo sintomi lievi. Un altro scenario possibile secondo alcuni esperti è che il virus possa diventare simile a quello del morbillo; in alcune zone del mondo in cui non è stata sufficiente la vaccinazione il morbillo è ancora endemico e potrebbe verificarsi una situazione simile per SARS-CoV-2 se la popolazione rifiuta il vaccino.
Il futuro di SARS-CoV-2 dipende anche da un’altra variabile: l’eventuale diffusione in una popolazione animale selvatica; infatti, diverse malattie (come l’Ebola, la febbre gialla…) continuano ad esistere perché i patogeni perdurano in serbatoi animali, tipo gli insetti da dove possono tornare di nuovo negli esseri umani. Probabilmente SARS-CoV-2 ha avuto origine nei pipistrelli, ma è possibile che sia stato trasmesso agli esseri umani tramite un ospite intermedio. Il virus è in grado di contagiare facilmente diversi animali, tra cui gatti, conigli e criceti e risulta essere particolarmente contagioso nei visoni.
È difficile allora prevedere il percorso di SARS-CoV-2 per diventare endemico, ma la società ha un certo controllo: nei prossimi uno-due anni i Paesi potranno ridurre la trasmissione del coronavirus con misure di controllo finché non saranno state vaccinate persone abbastanza da raggiungere l’immunità di gregge o da ridurre in maniera drastica i casi gravi e le morti; se invece abbandonano le strategie in atto per ridurre la diffusione e lasceranno che il virus regni senza controllo allora i giorni più bui della pandemia devono ancora arrivare.
Immagine copertina: Di PopTika