Lo Yoga è una cosa seria
Yoga: moda degli anni zero, impennata negli anni dieci. Un termine parte della nostra cultura, usato, abusato.
Una splendida manifestazione di ciò che il corpo umano è in grado di compiere. Posizioni sulla testa, sulle mani, su poche dita, spaccate, contorsionismi.
Promesse di fisici rimodellati, più elastici e prestanti. Rischiamo di chiamare Yoga quello che Yoga non lo è.
Lo yoga è una cosa seria.
Vesto la mia preoccupazione da critica e cerco di argomentarne i contorni. Questa disciplina rischia di essere svuotata, svenduta e privata del suo vero significato; ne vengono “vendute” e proposte solo alcune parti.
Yoga è unione e unito deve rimanere, a garanzia del fine per il quale questa disciplina è stata tramandata nei secoli. Ciò che è manifesto, ciò che vediamo si chiama Asana; è yoga? Si, ma ne è una minima parte.
La complessità, non in quanto difficoltà ma in quanto multidimensionalità, sta proprio nel vivere la pratica in maniera completa; gli “Yoga Sutra” di Patanjali descrivono le 8 tappe della pratica, i famosi Ashtanga.
YAMA è il primo passo: mantenere un comportamento etico nei confronti dell’esterno, praticare la non violenza, la verità, il non accumulo.
NIYAMA sono le pratiche di condotta interiore legate al rispetto, igiene e purificazione della nostra struttura fisica, mentale, emozionale.
Le ASANA sono posizioni, attitudini corporee.
PRANAYAMA è il controllo dei soffi respiratori, della nostra energia vitale.
PRATYAHARA riguarda “ritiro” dei sensi dalla percezione degli oggetti esterni per favorire la percezione interiore.
DHARANA è focalizzazione ferma dell’attenzione in un solo punto, azione definita con il termine di concentrazione.
DHYANA è meditazione: la fase in cui la concentrazione diventa stabile ed ininterrotta.
Il punto di arrivo è SAMADHI: contemplazione ed estasi divina.
Cosa rende questa disciplina inedita e unica nel suo genere? Ciò che gli 8 Ashtanga insieme compiono: attraverso i suoi aspetti, lo Yoga restituisce al praticante consapevolezza, conoscenza di sè, una percezione interiore di livello profondo. Secondo Patanjali la sola conoscenza è insufficiente; il fine della pratica riguarda il superamento degli stati ordinari della coscienza, per realizzare uno stato soggettivo che è sia extrarazionale sia sovrasensoriale (samādhi), grazie al quale ottenere la liberazione (mokṣa).
Questa ricerca è trasversale e comune a tutte le culture e tradizioni, non solo quella indiana. Torniamo vicino casa: il “nosce te ipsum” di Socrate; gli Orfici nel periodo ellenico-romano consideravano l’anima una “divinità minore”; per gli Stoici la realizzazione avveniva attraverso il consolidamento della percezione interiore (Oikeiosis); secondo gli Gnostici la conoscenza del Divino partiva dalla conoscenza di sè che spesso si otteneva attraverso pratiche meditative. Per la tradizione Cristiano Cattolica il discorso era analogo; dalle riflessioni di Sant’Agostino: “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homini habitat veritas” «non andare fuori, rientra in te stesso: è nel profondo dell’uomo che risiede la verità».
Lo Yoga rappresenta la strada da intraprendere per compiere un cammino evolutivo. Nella mia esperienza da insegnante di Yoga ho spesso assistito a forti entusiasmi iniziali che si sono stemperati nella pratica integrale; lo yoga è incontro e confronto con la parte più intima di noi stessi; ed è per questo che molti praticanti, non riuscendo a sostenere questo incontro, si rivolgono ad altre discipline, segno che questa pratica è indirizzata a coloro che realmente e seriamente intendono intraprendere questo cammino: il ritorno verso l’unità.
La pratica integrale costa e vale tutti i passi e gli sforzi che richiede. Ma il risultato è restituirci a noi stessi interi ed integri. Tutto il resto, per favore, chiamiamolo ginnastica.