News sull’Alzheimer: novità, prevenzione e ultime scoperte 2020
Perché parlare di news, prevenzione e ultime scoperte riguardo l’Alzheimer nel 2020?
La malattia neurodegenerativa chiamata col nome del suo scopritore, neuropatologo dott. Alois Alzheimer, dopo oltre un secolo dalla sua prima descrizione scientifica, non è curabile allo stato attuale delle ricerche.
Oltre 40 milioni di persone nel mondo soffrono di malattie neurodegenerative, 40 milioni di persone corrispondono ad esempio alla popolazione dell’intera Algeria o del Sudan, o dell’Iraq per rendere l’idea. In Italia la malattia di Alzheimer coinvolge 600.000 persone (poco più dei residenti della Basilicata). Sono numeri impressionanti.
In questo articolo indagheremo le nuove frontiere della ricerca e quale sia l’approccio migliore per la prevenzione. L’invecchiamento è il principale fattore di rischio per l’Alzheimer. Al secondo posto, in base ad una serie di ricerche, c’è l’essere donna. Lo stile di vita e l’ambiente in cui viviamo risultano anch’essi fattori molto importanti.
L’approccio farmacologico ha da sempre puntato i riflettori sull’alterazione di alcune proteine a livello cerebrale: le principali sono l’amiloide e la proteina tau.
Questo approccio di natura biologica ha fallito, non si trova la strada per evitare questa alterazione e una domanda si fa strada: se sia meglio adottare un approccio multidisciplinare e sia il caso di riprendere gli studi dal punto di vista biologico e fisiologico dal principio.
In questo articolo indagheremo le basi interne della malattia e i fattori esterni.
Le cause del morbo:
I neuroscienziati hanno identificato cinque differenti aree di possibile intervento:
- indagare come si sviluppino le placche senili;
- perché non vengano smaltite le proteine deteriorate;
- perdita di connessioni elettriche;
- fattori genetici;
- stato infiammatorio.
Quali fattori aumentano il rischio di Alzheimer
- Le donne presentano un rischio maggiore di sviluppare la malattia, le variazioni ormonali nel corso della vita femminile possono influire sul declino mentale?
- L’inquinamento dell’aria e lo stile di vita poco sano sembrano aumentare di molto la possibilità di sviluppare sintomi neurodegenerativi.
Le cause del morbo di Alzheimer
Proteine alterate e del perché non funzionano i sistemi di “pulizia” fisiologici
Il lavoro di ricerca, fino ad oggi, ha studiato la malattia dal punto di vista biologico e si è cercato di intervenire a livello farmacologico, o genetico, sulla proteina beta-amiloide.
Nei pazienti affetti dal morbo vi sono ammassi di proteina beta-amiloide deformi tra i neuroni detti placche senili. Altri ammassi si trovano all’interno del neurone stesso e sono grovigli di proteina tau.
I farmaci sviluppati fino ad oggi sono stati concepiti per ridurre la concentrazione della proteina beta-amiloide, ma non hanno bloccato in maniera significativa il declino cognitivo dei pazienti.
Uno dei principali studiosi del morbo di Alzheimer, il prof. Kenneth S. Kosik, medico e professore di neuroscienze e ricerca e condirettore del Neuroscience Research Institute dell’Università della California a Santa Barbara, afferma che “è tempo di ripartire dalle basi. Io e i miei colleghi, che lavorano in un vasto spettro di discipline scientifiche e mediche, riteniamo che sia necessario riconsiderare la fisiologia e la biologia fondamentali del morbo di Alzheimer, e da queste idee potremo ricavare nuove strategie per combatterla.”
La prima possibilità è quella di comprendere meglio come mai si produca l’anomalia di amiloide e di proteina tau nelle aree cerebrali a formare le così dette placche senili. Inoltre come mai queste anomalie non vengono rimosse dai sistemi di controllo delle cellule? La ricerca dovrà meglio comprendere questi processi per studiare delle opportunità farmacologiche.
Quanto conta la genetica nella patologia di Alzheimer?
Sono state individuate tre mutazioni genetiche che inducono una forma di Alzheimer giovanile (APP, PSEN1 e PSEN2). Nella maggior parte dei casi la malattia si sviluppa dopo i 65 anni e non coinvolge questi geni. Tuttavia i genetisti hanno scoperto una ventina di varianti genetiche che aumentano lievemente il rischio. Uno studio del 2019 pubblicato su “Science” indica che una delle varianti più interessanti (BIN1) coinvolge un gene del sistema di smaltimento che permetterebbe di proteggere i neuroni dall’azione dannosa degli agglomerati di amiloide e di proteina tau.
Infiammazione e Alzheimer
Quando il cervello rileva qualcosa che può danneggiare i suoi sofisticatissimi sistemi, come le placche di beta-amiloide o gli ammassi di proteina tau, fa scattare un processo che coinvolge il sistema immunitario e scatena i così detti “mediatori dell’infiammazione” che però colpiscono anche le cellule cerebrali sane. In molte persone anziane si rileva un certo grado di infiammazione e questo suggerisce che, a un certo punto della vita, vi sia un leggero stato infiammatorio in tutto il corpo.
L’invecchiamento è assai variabile da una persona all’altra, ciò significa che anche la progressione del morbo di Alzheimer è molto variabile. Probabilmente questa diversità può essere attribuita a variazioni individuali del sistema immunitario.
Tutto questo fa pensare che l’esposizione del sistema immunitario ai diversi patogeni, unita alle differenze genetiche, possa influenzare il modo in cui si sviluppa il morbo di Alzheimer creando specifici profili immunitari individuali, o “immunotipi”.
I ricercatori che intendono fermare il danno cerebrale provocato dall’infiammazione diffusa devono affrontare una sfida, ovvero devono distinguere la desiderabile risposta immunitaria, grazie a cui il cervello combatte sia i problemi che si presentano, sia l’ordinaria degradazione dovuta all’età, dalle altre risposte, meno selettive, alla progressione del morbo di Alzheimer.
Interruzione dei collegamenti elettrici
Il cervello è un organo che “comunica” attraverso un sistema di segnali elettrici. Il morbo di Alzheimer compromette la trasmissione di tali segnali. Importante notare come differenti tipi di cellule di segnalazione vengano colpite in modo diverso e gli effetti siano variabili a seconda dell’area cerebrale colpita.
Per esempio le aree del cervello dedicate a memoria, emozioni e sonno sono danneggiate gravemente, mentre i centri deputati alle funzioni motorie e sensoriali primarie sono relativamente poco colpiti.
Uno studio ha mostrato che le regioni cerebrali che si attivano quando la mente vaga senza meta nel cosiddetto stato a riposo, o di default, sono quelle in cui si depositano per prime le placche di proteina beta-amiloide. Tuttavia non è scontato concludere che una mente errante sia necessariamente soggetta alla deposizione della proteina beta-amiloide tra i neuroni cerebrali. Il sonno è un fattore importante, considerato determinante nello sviluppo del morbo di Alzheimer. L’ipotesi è che durante il sonno profondo le onde ritmiche del fluido cerebrospinale potrebbero servire a ridurre le tossine del cervello, compreso gli ammassi di beta-amiloide.
Il sonno profondo diminuisce con l’invecchiamento. Uno degli approcci possibili, dal punto di vista farmacologico, potrebbe quindi essere quello di indurre, durante il sonno, stati di sonno profondo più prolungati.
I farmaci utilizzati attualmente
Gli inibitori delle colinesterasi come il donepezil, la rivastigmina e la galantamina migliorano modicamente le funzioni cognitive e la memoria in alcuni pazienti. Di tale categoria esiste una quarta molecola: la tacrina, ma non è mai stata impiegata in Italia a causa della sua epatotossicità.
Il donepezil è il farmaco di prima scelta perché può essere somministrato 1 volta/die ed è ben tollerato. La dose raccomandata è di 5 mg per via orale 1 volta/die per 4-6 settimane, da aumentare a 10 mg 1 volta/die. Il trattamento deve essere continuato se il miglioramento funzionale è evidente per diversi mesi, altrimenti deve essere interrotto. I più frequenti eventi avversi sono gastrointestinali (p. es., nausea, diarrea). Raramente possono presentarsi senso di sbandamento e aritmie cardiache. Tali effetti avversi possono essere minimizzati incrementando il dosaggio gradualmente.
La memantina, un antagonista del recettore N-metil-d-aspartato, sembra migliorare la capacità cognitiva e funzionale dei pazienti con malattia di Alzheimer da moderata a grave. La dose è di 5 mg/die per via orale 1 volta/die, che viene progressivamente incrementata a 10 mg per via orale 2 volte/die in circa 4 settimane. Per i pazienti con insufficienza renale, la dose deve essere ridotta o il farmaco deve essere evitato. La memantina può essere utilizzata insieme a un inibitore della colinesterasi.
Gli studi clinici con farmaci sperimentali che hanno come bersaglio l’accumulo e l’eliminazione del peptide beta-amiloide non hanno avuto esito positivo, sebbene alcuni studi siano ancora in corso.
Quali fattori aumentano il rischio di Alzheimer
Alzheimer e l’essere donna
Una delle principali linee di ricerca sulla correlazione di genere con il morbo di Alzheimer è affidata alla dott.ssa Lisa Mosconi, a capo della Women’s Brain Initiative e direttore associato dell’Alzheimer Prevention Center presso il Weill Cornell Medical College di New York. Mosconi ha analizzato il metabolismo degli zuccheri nel cervello femminile e le variazioni che gli estrogeni inducono a livello cerebrale, questi due fattori sono strettamente collegati. Infatti il metabolismo glucidico è regolato proprio dagli estrogeni che svolgono anche un ruolo neoroprotettivo (nell’uomo il ruolo protettivo è svolto dal testosterone).
Durante la premenopausa, tra i 45 e i 50 anni, gli estrogeni inziano a diminuire sensibilmente e così anche il metabolismo degli zuccheri. Durante la menopausa le modificazioni cerebrali risultano ancor più marcate e si registrano anche leggeri episodi di smemoratezza e distrazione. Tale impedimento fortunatamente è temporaneo perché il cervello della donna è in grado di compensare ricorrendo ad altre fonti energetiche. In uno studio del 2009 i test cognitivi rendevano risultati pari a quelli del periodo premenopausale. Tuttavia dopo 15/20 anni un quinto di queste donne riceverà una diagnosi di Alzheimer.
Le donne vivono in media cinque anni in più rispetto agli uomini, negli Stati Uniti, ma la longevità non giustifica la maggior frequenza e il maggior rischio.
Una delle ricerche più importanti riguarda i legami tra il morbo di Alzheimer e l’esposizione agli estrogeni nell’arco della vita con un campione molto ampio che coinvolge quasi 16000 persone e sembrerebbe correlare un periodo riproduttivo più ampio con un rischio inferiore.
Condizioni di salute predisponenti al morbo di Alzheimer: glicemia e colesterolo
La menopausa non provoca Alzheimer, ma viene definita una finestra di vulnerabilità.
Inoltre si sono fatte ricerche anche in donne in postmenopausa in tre condizioni:
- Condizioni metaboliche ottimali
- Al limite dell’ipertensione
- Condizioni metaboliche al limite (glicemia alla soglia del prediabete)
Oltre l’80% dei pazienti di Alzheimer sono insulino-resistenti.
Se pensiamo alla menopausa e all’esaurimento dell’estrogeno come fattori che alterano gli equilibri dell’organismo, si intuisce facilmente come un complesso insieme di fattori possa scatenare l’Alzheimer.
Tra gli effetti salutari dell’estrogeno vi è la regolazione del colesterolo: promuove l’aumento di HDL (colesterolo buono) e la riduzione di LDL (colesterolo cattivo).
Considerando che il colesterolo è parte della costituzione delle guaine che avvolgono i neuroni e che il colesterolo cattivo, che viene trasportato dal sangue ai neuroni, si può depositare sulle arterie indurendole e inducendo infiammazione e progressivamente piccoli ICTUS, tali condizioni aumentano di oltre il doppio il rischio di Alzheimer e altre forme di demenza.
Anche il sonno contribuisce a regolare queste vie, la mancanza del sonno infatti riduce la sensibilità di insulina contribuendo ad aumentare la zucchero circolante e inoltre durante una notte di buon sonno le cellule del cervello espellono la proteina beta-amiloide e tau. La carenza di sonno altera questi processi. Anche lo stress e la depressione sono risultati fattori di rischio.
In tutto questo sistema metabolico sembra coinvolto un gene specifico APOE4, le donne portatrici di tale gene presentano un rischio 4 volte superiore di sviluppare Alzheimer. (leggi anche: dormire bene per vivere meglio)
Prevenzione per ridurre il rischio di Alzheimer
Uno studio riguardo il gene APOE4 del 2019 condotto da Roberta Diaz Brinton, direttrice del Center for Innovation in Brain Science dell’Università dell’Arizona, riguarda gli indicatori metabolici.
Brinton ha dimostrato che APOE4 rappresenta un campanello di allarme, non una condanna.
Almeno un terzo dei casi di Alzheimer è collegato a diabete, obesità, cattiva alimentazione e altri fattori prevenibilio e curabili.
“Non possiamo cambiare il sesso stabilito dai cromosomi, l’età o le varianti genetiche di cui siamo portatori, ma possiamo intervenire sulla salute del nostro metabolismo e quindi sui nostri livelli di rischio” afferma Brinton.
Il mantra da ricordare, anche in caso del morbo di Alzheimer è prevenzione.
Le raccomandazioni più attuali sono:
- una dieta basata su vegetali a basso contenuto di zuccheri, acidi grassi saturi e modificati (come quelli presenti nel junk food, leggi anche: cibi confezionati, obesità e patologie cardiovascolari);
- esercizio fisico;
- riduzione dello stress;
- almeno 6/7 ore di sonno a notte.
Infine si segnala che a fine 2020 è previsto l’avvio di un trial clinico di fase II su portatori del gene APOE4 finanziato dal National Insitute of Ageing.
Il trial in questione indagherà gli effetti di una molecola molto promettente (Allopregnanolone) che, nella prima fase, ha mostrato risultati confortanti invertendo i deficit cognitivi e ripristinando la capacità di apprendimento e memoria.
L’inquinamento ambientale e il rischio di Alzheimer
Uno studio pubblicato lo scorso ha scoperto collegamenti chiari tra inquinamento da particolato fine, cambiamenti strutturali nel cervello e perdita di memoria nelle donne anziane.
L’inquinamento di polveri sottili derivante dalla combustione dei carburanti fossili e da altre fonti contiene centinaia di sostenze differenti. Deborah Cory-Slechta, neurotossicologa del Medical Center dell’Università di Rochester, US, afferma che questi inquinanti inducono, sia negli umani che negli animali, il rilascio di molecole infiammatorie e immunitarie che dovrebbero contribuire a proteggere il cervello dagli inquinanti, ma costantemente sollecitate inducono infiammazione cronica nell’organismo.
Tali inquinanti si accumulano negli anni, il che potrebbe contribuire a spiegare perché l’Alzheimer sia una malattia dell’età avanzata.
Ci sono più di dieci studi che collegano l’esposizione all’inquinamento atmosferico in età avanzata con la demenza e le prove sono molto convincenti.
In conclusione
La malattia è invalidante e socialmente impattante, tuttavia le scoperte appena citate sono incoraggianti, è possibile far qualcosa per ridurre i pericoli.
Come lo stile di vita, l’inquinamento ambientale è un fattore che si può controllare. Programmi di rimozione degli inquinanti dal nostro mondo porterebbe molti benefici e nessuna controindicazione.
In definitiva si sottolinea ancora come anche lo sport sia molto importante nel ridurre il rischio: sia per l’aumento di afflusso di sangue al cervello, sia perché aumenta la produzione del fattore neurotrofico di derivazione cerebrale, una proteina che promuove la crescita e la manutenzione delle cellule cerebrali (leggi anche: rallentare l’invecchiamento tramite l’attività fisica).
Bibliografia:
Le Scienze, numero 624 del 1 agosto 2020, pag. 52-79 “Una nuova era per il morbo di Alzheimer”; pag. 54 “La via da percorrere” di Kenneth S. Kosik, pag. 62 “Relazioni pericolose” di Jena Pincott; pag. 68 “Il ruolo dell’inquinamento “di Ellen Ruppel Shell.
Cryo-EM Structures of Tau filaments from Alzheimer’s Disease. Fitzpatrick e altri, “Nature”, vol. 547, pp. 185-190, 17 luglio 2017.
Memory Engrams: Recalling the Past and Imaging the Future. Josselyn e Tonegawa, “Science”, Vol. 367, art. N. eaaw4325, 3 gennaio 2020
Estrogens and Memory: Basic Research and Clinical Implications. A cura di Frick K., Oxford University Press, 2020
The XX brain: The Groundbraking Science Empowering Women to Maximize Cognitive Health and Prevent Alzheimer’s Disease. Mosconi, penguin Random House, 2020.
Immagini:
- Di pathdoc uomo anziano che perde la memoria
- Donna di mezza età sorridente Di LightField Studios
- Sinapsi: illustrazione in 3D di Andrii Vodolazhskyi
- Immagini interne: paesaggio urbano inquinato di aapsky